HIV: nuove strategie terapeutiche verso una migliore qualita’ di vita del paziente
A cura di Cabiddu Maria Francesca
Scuola di Specializzazione in Farmacia Ospedaliera, Università di Firenze
Abstract
La terapia antiretrovirale altamente attiva (Highly Active AntiRetroviral Therapy – HAART), o terapia antiretrovirale di combinazione (combination antiretroviral therapy – cART), costituisce lo standard per il trattamento dell’infezione da HIV. La cART prevede la cosomministrazione giornaliera di diversi farmaci antiretrovirali, combinati tra loro in modo da abbassare la carica virale del paziente, ripristinare il suo status immunologico e prevenire eventuali ricadute legate alle riattivazioni del virus. Grazie a questi farmaci, un paziente HIV-positivo regolarmente in terapia, presenta, oggi, un’aspettativa di vita del tutto assimilabile a quella di una persona non positiva. Sebbene tali associazioni siano molto efficaci e generalmente ben tollerate, la necessità di mantenerne un’assunzione pressoché “lifelong”, espone il paziente a problemi di compliance e al rischio di tossicità a medio-lungo termine, legati magari anche all’insorgenza di patologie concomitanti, correlate all’aumentata sopravvivenza di questi pazienti. Questo, di fatto, ha portato ad una cronicizzazione della patologia, che ha visto da un lato migliorare drasticamente la percezione del paziente nei confronti della propria patologia ma, dall’altra parte, apre ad una serie di problematiche tipiche delle patologie croniche. Aspetti importanti in questo senso, rimangono la necessità di ridurre gli effetti collaterali a medio-lungo termine, il miglioramento della compliance e la possibilità di ridurre il burden farmacologico del paziente, diminuendone anche lo “stigma”, ovvero il peso psicologico di dover assumere quotidianamente una terapia antiretrovirale.
LAST UPDATE : 28/08/2022
La gestione dell’infezione da HIV ha subito negli ultimi due decenni numerosi cambiamenti. Grazie alla disponibilità sempre crescente di farmaci e strategie terapeutiche con profili di efficacia/sicurezza sempre migliori, è stato possibile far passare la patologia da acuta, con esiti quasi sempre mortali negli anni ’80, a cronica consentendo uno dei maggiori successi della medicina contemporanea [1].
Lo standard di cura è rappresentato oggi da una terapia antiretrovirale altamente attiva (Highly Active AntiRetroviral Therapy – HAART), denominata anche terapia antiretrovirale di combinazione (combination antiretroviral therapy – cART), composta da associazioni predefinite di farmaci antivirali di classi diverse (inibitori della fusione-penetrazione, inibitori dell’integrasi, inibitori della proteasi, inibitori nucleosidici e non nucleosidici della trascrittasi inversa) che consentono di mantenere soppresso il numero di copie di virus circolanti impedendone quindi la trasmissione e prevenendo la progressione della malattia nel soggetto infetto. Mentre i progressi nel trattamento hanno notevolmente migliorato l’aspettativa di vita delle persone affette da HIV, alcuni aspetti critici permangono. Tra questi, gli effetti collaterali a medio-lungo termine dell’assunzione dei farmaci antiretrovirali e l’elevato numero di molecole farmacologicamente attive da assumere quotidianamente (mediamente 3 per paziente) sono i due principali fattori che incidono sulla compliance del paziente e che risultano i imprescindibili per garantire un’adeguata aderenza, la quale si traduce in un successo terapeutico. La cronicizzazione dell’infezione da HIV, inoltre, ha esposto i pazienti ad una serie di comorbidità non considerate in precedenza e tipiche dell’invecchiamento.
All’interno di questo scenario, la ricerca si sta orientando verso un’ottimizzazione della gestione terapeutica con l’obiettivo di ridurre il carico farmacologico antiretrovirale quotidiano e cumulativo nel tempo (pill burden) ed evitare o limitare le interazioni farmacologiche con i farmaci concomitanti assunti dal paziente. L’ottimizzazione può diventare una necessità per il paziente HIV+ fragile e/o in età avanzata caratterizzato dalla presenza di uno stato infiammatorio legato all’ infezione cronicizzata, al quale si aggiungono molteplici comorbidità che necessitano di essere trattate, con conseguente rischio di esposizione ad interazioni farmacologiche, alle quali si somma la possibile comparsa di effetti tossici a lungo termine dei farmaci antiretrovirali, con relativo rischio di cascate prescrittive.
In questa ottica di razionalizzazione terapeutica possono avere successo regimi che riducano il carico farmacologico al quale è esposto il paziente. Esistono diverse strategie che mirano a diminuire l’esposizione del paziente a farmaci antiretrovirali. Tra queste possiamo sicuramente citare:
- Riduzione del numero di principi attivi assunti (es. introduzione di un regime a 2 principi attivi, denominato dual therapy, in sostituzione ad un regime a 3 o più attivi [2]);
- Passaggio a regimi con componenti a più bassi dosaggi;
- Switch a classi farmacologiche con tossicità ridotta;
- Riduzione del numero di somministrazioni (es. passaggio a regimi farmacologici long-acting).
Conditio sine qua non per un cambio di terapia sono il mantenimento della virosoppressione e la prevenzione di eventuali fenomeni di resistenza.
La terapia antiretrovirale di successo richiede sempre un’ottimale aderenza terapeutica. La migliore compliance da parte del paziente, quindi, deve essere uno degli obiettivi da raggiungere in sede di prescrizione e monitoraggio delle terapie antiretrovirali. In questo contesto, diversi modelli nazionali ed internazionali hanno dimostrato l’efficacia del rapporto di collaborazione tra medico, farmacista e paziente [3,4]; in particolare l’inserimento di un farmacista all’interno di un team multidisciplinare nella gestione dei pazienti affetti da HIV può portare a numerosi vantaggi quali consulenza al paziente riguardo i metodi appropriati di stoccaggio e conservazione dei farmaci antiretrovirali e consigli per aumentare l’aderenza alla terapia, attività tempestiva di farmacovigilanza sulle eventuali reazioni avverse, supporto al clinico in fase prescrittiva. Il tutto ha avuto, in diversi contesti, implicazioni positive sia dal punto di vista clinico che di sostenibilità del sistema. Molteplici studi hanno dimostrato l’efficacia del farmacista nella promozione dell’aderenza terapeutica. Uno di questi, condotto recentemente negli USA [5], ha proposto uno strumento di misura della quantità e qualità delle attività di promozione dell’aderenza terapeutica da parte dei farmacisti nel setting ambulatoriale. Lo studio ha messo in evidenza come la disponibilità di strumenti di misura delle proprie capacità abbiano aiutato i farmacisti a specializzarsi nel counseling e nella gestione del paziente HIV migliorandone l’aderenza alla terapia.
Un altro aspetto di interesse che tende a rispondere ad un bisogno di razionalizzazione ed ottimizzazione della cART riguarda lo sviluppo di molecole chimiche e biologiche a lunga durata d’azione (long -acting), con l’obiettivo di ridurre la frequenza delle somministrazioni e il conseguente “stigma” che i pazienti devono ancora sopportare. La necessità di uno schema a più farmaci implica che le singole molecole del regime abbiano durata d’azione simile e tale da permettere una somministrazione meno frequente ma concomitante. All’interno di questa categoria di farmaci rientra la combinazione rilpivirina/cabotegravir, di recente introduzione in commercio anche in Italia. L’associazione di rilpivirina, inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa, con cabotegravir, inibitore dell’integrasi, in forma iniettiva long-acting è stata approvata per il trattamento dell’infezione da HIV-1 negli adulti in soppressione virologica (HIV-1 RNA inferiore a 50 copie/mL), con una lunga durata d’azione che elimina la necessità di assumere le compresse orali quotidianamente consentendo il passaggio ad un regime posologico mensile o bimensile [6,7].
Un ulteriore campo di ricerca è stato lo sviluppo di anticorpi monoclonali (mABs) da associare alla terapia standard. Gli anticorpi attualmente sviluppati sono ibalizumab, approvato EMA, e leronlimab ancora in sperimentazione [8]. Ibalizumab è un anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato che si lega al recettore CD4 espresso dai linfociti T e utilizzato dal virus dell’HIV per infettare questa popolazione leucocitaria; il farmaco interferisce con le fasi successive al legame necessarie per l’ingresso delle particelle del virus dell’HIV-1 nelle cellule ospiti e impedisce la trasmissione virale che si verifica attraverso la fusione cellula-cellula. Questo mAB è approvato in associazione a terapia antivirale per pazienti resistenti ai medicinali convenzionali e per i quali non sarebbe altrimenti possibile predisporre un regime antivirale soppressivo [9]. Lo schema di somministrazione è bisettimanale con una dose di carico singola di 2 000 mg seguita da una dose di mantenimento di 800 mg ogni 2 settimane. Leronlimab invece è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto verso il recettore tipo 5 delle chemochine (CCR5) e, analogamente a ibalizumab, inibisce l’entrata del virus nella cellula ospite.
Attualmente i mABs rappresentano una strategia terapeutica promettente dato il buon profilo farmacocinetico, la mancanza di interazioni farmacologiche e la buona tollerabilità, e potrebbero giocare un ruolo importante nelle strategie della profilassi pre- e post-esposizione. Non è chiaro se queste formulazioni long-acting iniettive si dimostreranno innovative per i pazienti non aderenti, in quanto la letteratura disponibile richiede ulteriori studi e dati di real-life, considerando la gestione più complicata del paziente da parte del medico.
Si può concludere comunque che queste nuove prospettive terapeutiche inaugurino un nuovo algoritmo decisionale della terapia che considera non solo gli endpoint viro-immunologici ma anche gli outcomes relativi all’impatto complessivo sul benessere del paziente, offrendo speranze concrete al paziente HIV di aspirare ad uno stile di vita migliore in linea con la farmacoterapia sempre più orientata verso la strada dell’approccio personalizzato.
Bibliografia
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